L’infarto, e più in generale tutte le malattie cardiovascolari, rappresentano la principale causa di morte nel mondo e anche in Italia.
In particolare la cardiopatia ischemica è la prima causa di morte in Italia. Il ministero della Salute nel 2010 ha calcolato oltre 220.000 decessi causati da malattie cardiovascolari (97.952 uomini e 126.530 donne), pari al 38,8 del totale.
Se si sopravvive ad un attacco cardiaco in molti casi si diventa malati cronici. Nella nostra popolazione 4 persone su mille soffrono di patologie cardiocircolatorie in modo cronico e nel 2014 la spesa netta per i farmaci destinati ai malati cronici con questo profilo a carico del servizio sanitario nazionale è stata di 8.598.274.970 con un incidenza sul Pil di quasi un punto e mezzo.
E, sebbene i progressi della cardiologia abbiano contribuito al guadagno in aspettativa di vita di circa 7 anni negli ultimi 30 anni, stare attenti e monitorare i fattori di rischio.
Inoltre l’età media si è abbassata dai 64 ai 60 anni, con una casistica sempre più ampia al di sotto dei 50 anni. Un abbassamento dell’età – sottolineano gli esperti- che, tra le altre cose, porta anche ad un progressivo aumento degli infarti in età lavorativa.
Quindi, come se il rischio di rimetterci la vita non fosse abbastanza, chi è colpito da ictus e infarto deve preoccuparsi anche del lavoro e del rischio concreto di perderlo.
Infarto, si rischia di perdere la vita ma anche il lavoro
Una recente indagine, infatti, ha evidenziato come le persone vittime di un infarto difficilmente potevano tornare a lavorare una volta guariti. Ma la colpa non era sempre del datore di lavoro.
Lo studio, eseguito su oltre 22mila persone e condotta da Laerke Smedegaard, della Herlev & Gentofte University di Hellerup (Danimarca), ha messo in evidenza come il 24% delle persone vittime di un infarto perde il lavoro entro un anno dalla ripresa attività.
Se da un lato molti datori di lavoro tentano di licenziare uomini e donne che riducono la loro produttività a causa di problemi di salute, dall’altro sono anche le stesse persone che si vedono costretta a licenziarsi. Dopo un infarto, infatti, la riabilitazione non è sempre così semplice e anche lavorare diviene molto difficoltoso.
«Una disoccupazione di ritorno che andrebbe studiata maggiormente analizzando nel dettaglio quali sono i motivi precisi che spingono queste persone ad allontanarsi dal proprio lavoro precedente e, in certi casi, ad allontanarsi dall’intero mercato del lavoro», spiegano gli esperti. «Il fatto di riuscire a mantenere il proprio posto di lavoro dopo un infarto è un fattore importante per la qualità di vita, per l’autostima e per la stabilità economica dell’infartuato», spiega Smedegaard.
Anche Carola Adami, fondatrice della società di ricerca di Milano Adami & Associati, ha dichiarato che è arrivata l’ora di iniziare a pensare alle conseguenze che l’infarto ha sul lavoro delle persone che ne sono state colpite.
“Questi dati devono farci riflettere – ha commentato la Adami, – Se ormai da anni si parla dell’accumulo di stress tipico di certe professioni come ulteriore fattore di rischio di infarto, ora dobbiamo iniziare a pensare non solo alle cause, ma anche agli effetti che un infarto può avere sulla vita professionale di una persona”.
“Un infarto segna profondamente la vita di un individuo, anche dal punto di vista professionale – ricorda Adami – e in molti casi gli infartuati hanno delle concrete difficoltà a proseguire normalmente la propria carriera lavorativa. Non è infatti raro incontrare persone che, ad un anno o due dall’infarto, sono state costrette a cambiare totalmente lavoro o, nel peggiore dei casi – conclude – a ritirarsi completamente”.