Uno studio pubblicato su Nature Medicine da un team guidato da Manuel Valiente, capo del Brain Metastasis Group presso il Centro nazionale spagnolo di ricerca sul cancro (CNIO), mostra che la somministrazione di silibinina in pazienti con metastasi cerebrali riduce le lesioni senza causare alcun effetto negativo. Questo studio preliminare fornisce la prova del fatto che questo composto potrebbe essere una nuova alternativa efficace e sicura per il trattamento delle metastasi cerebrali.
Si stima che tra il 10 e il 40 percento dei tumori primari generano metastasi nel cervello, una situazione che peggiora considerevolmente la prognosi del paziente. Pochi progressi sono stati fatti in termini di trattamento; attualmente le metastasi cerebrali sono ancora trattate con chirurgia e/o radioterapia. Negli ultimi anni sono apparse alcune alternative in termini di terapie mirate o immunoterapia, ma la percentuale di pazienti che possono trarre beneficio da queste terapie è solo del 20 percento nel migliore dei casi.
Il tumore metastatico del cervello è una metastasi che si forma all’interno dell’encefalo. Il tessuto che lo compone non è quindi formato da cellule mutate del sistema nervoso centrale, ma da cellule che sono arrivate fin lì staccandosi da altri tumori presenti nell’organismo.
Alcuni tumori primari formano metastasi con più facilità nel cervello rispetto ad altri organi per ragioni anatomiche. In particolare, come ha mostrato uno studio statunitense su oltre 2.700 casi di tumori metastatici cerebrali, i tumori primari che formano metastasi soprattutto nel cervello sono il tumore polmonare, quello al seno e i tumori dell’apparato genitourinario.
Alcuni specifici sintomi di tipo neurologico possono indicare la presenza di metastasi al cervello. Tra questi, mal di testa, debolezza muscolare, modifiche del comportamento così come della capacità di giudizio e di ragionamento. Problemi di tipo fisico possono includere alterazioni della vista, perdita dell’udito, tremori, nausea o vomito, disturbi del linguaggio, difficoltà deambulatorie e crisi epilettiche.
Gli esami diagnostici sono la tomografia computerizzata (TC) e soprattutto la risonanza magnetica (RM) cerebrale con gadolinio, che consente di valutare esattamente anche il numero di lesioni. Sono inoltre indispensabili gli esami di stadiazione tumorale e in particolare la TC total body.
Ad oggi, le opzioni terapeutiche dipendono dal numero di metastasi, dalle loro dimensioni e dalla sede; inoltre, sono importanti anche le condizioni cliniche del paziente e la presenza di malattia in altre sedi.
In generale, come per il tumore cerebrale primario, anche quello metastatico viene sovente aggredito innanzitutto con la chirurgia. Oltre a eliminare potenzialmente le metastasi, l’intervento chirurgico può anche ridurre i sintomi e la pressione all’interno del cranio.
I farmaci chemioterapici invece non risultano particolarmente efficaci in questi tipi di tumore.
Ma la terapia farmacologica potrebbe essere aiutata enormemente da una importantissima scoperta messa a segno dall’Ospedale Molinette di Torino e dal Cnr di Madrid: la crescita delle metastasi nel cervello provenienti da tumori del polmone e della mammella è facilitata dalla presenza di un fattore molecolare, non tanto sulle cellule tumorali stesse, ma su cellule del cervello sano, che erano considerate una barriera difensiva.
Nello specifico, il contributo del Gruppo Neuro-Oncologico torinese (Riccardo Soffietti, Roberta Rudà, Federica Franchino e Alessia Pellerino), fianco a fianco con l’anatomopatologo dottor Luca Bertero (Divisione di Anatomia Patologica dell’ospedale Molinette), ha dimostrato che la crescita delle cellule tumorali metastatiche nel cervello è favorita dalla presenza di un fattore molecolare (chiamato Stat3): questo fattore agisce non tanto sulle cellule tumorali stesse, ma su cellule del cervello sano (cosiddetti «astrociti reattivi»), che invece erano sempre state considerate una sorta di barriera difensiva.
Un risultato straordinario che ha richiesto di studiare circa cento campioni di metastasi cerebrali, tutti provenienti da interventi neurochirurgici e ha evidenziato che i pazienti con espressione di Stat3 sugli astrociti reattivi hanno una sopravvivenza molto più breve degli altri.
Naturalmente gli studiosi non si fermeranno qui con le loro indagini: adesso bisognerà verificare in studi clinici la possibilità di fermare incontrovertibilmente il meccanismo individuato, e la via da percorrere sarà di tipo farmacologico.