Licenziata con un emoji su WhatsApp, ottiene un risarcimento record

VEB

Una vicenda decisamente insolita ha visto protagonista una consulente per gli investimenti di Birmingham, in Inghilterra, che è stata allontanata dal lavoro mentre era in dolce attesa. L’elemento curioso? Il licenziamento è avvenuto tramite un messaggio contenente la celebre emoji delle “mani che ballano”. Il tribunale ha considerato la decisione dell’azienda discriminatoria, condannando il datore di lavoro al pagamento di ben 94.000 sterline di risarcimento.

Licenziata con un emoji su WhatsApp ottiene un risarcimento record
foto@Pixabay

Una gravidanza complicata e il lavoro da remoto

Paula Miluska, questo il nome della dipendente, aveva iniziato a lavorare presso Roman Property Group Limited nel marzo 2022. Qualche mese dopo, a ottobre, ha scoperto di aspettare un bambino. A causa di forti nausee mattutine, i medici le avevano suggerito di lavorare da casa, soluzione che la stessa Miluska aveva proposto al datore di lavoro.

Secondo la sua testimonianza, inizialmente non erano emerse particolari obiezioni da parte dell’azienda, tanto che Miluska aveva portato avanti alcuni incarichi in smart working. Tuttavia, il suo responsabile, Ammar Kabir, ha poi inviato un messaggio che indicava la difficoltà della società nell’affrontare il periodo e la necessità di avere il personale in ufficio in modo costante.


Il messaggio di licenziamento e la sorprendente emoji

Il 1° dicembre, Miluska riceve un messaggio definito “vago”, in cui Kabir fa presente che l’azienda non poteva più permettersi la sua collaborazione a distanza a causa di problemi economici e logistici. A conclusione della comunicazione, era presente la frase “Spero di vederti presto, abbiamo molto di cui parlare fuori dal lavoro”, accompagnata dall’emoji delle “mani che ballano”.

Questo simbolo, apparentemente innocuo, è diventato il fulcro della vicenda. Per Miluska era chiaro di essere stata licenziata a causa della sua impossibilità di lavorare in ufficio durante la gravidanza, contravvenendo alle direttive mediche. La donna ha quindi deciso di portare la questione in tribunale.


La decisione del tribunale: discriminazione in piena regola

Il giudice Garry Smart ha esaminato la situazione, decretando che il messaggio inviato da Kabir equivaleva a un licenziamento ingiusto. Nella sentenza, Smart ha sottolineato come la gravidanza di Miluska sia stata la vera ragione dell’allontanamento, configurando un caso di discriminazione di genere.

Di conseguenza, l’azienda è stata condannata a versare 94.000 sterline di risarcimento alla dipendente, riconoscendo che la sua condizione di salute legata alla gravidanza non era stata adeguatamente tutelata.


Impatto e riflessioni su questa sentenza

Il caso di Paula Miluska solleva questioni cruciali in tema di diritti dei lavoratori e protezione delle donne in gravidanza. Sebbene la diffusione del lavoro agile abbia aperto nuove opportunità, permangono situazioni in cui la flessibilità si scontra con necessità operative o, peggio, con pregiudizi.

La scelta di comunicare un licenziamento tramite un messaggio corredato da un’emoji mette in luce non solo la mancanza di tatto, ma anche di chiarezza sulle responsabilità di un datore di lavoro nei confronti di una dipendente in attesa di un figlio.


Conclusioni

Questa storia, unica per la modalità di licenziamento, rappresenta un segnale importante per tutte le aziende: la maternità va rispettata e tutelata, così come previsto dalla legge. Risulta fondamentale ricordare che ogni forma di discriminazione, soprattutto quando colpisce le donne in gravidanza, può portare a gravi sanzioni legali e a un danno d’immagine non trascurabile.

Grazie a questa sentenza, si pone l’accento sull’importanza di politiche aziendali inclusive e sulla necessità di procedure corrette e trasparenti, soprattutto in periodi delicati come quello della gravidanza. La vicenda Miluska dimostra, in definitiva, quanto possa essere costoso — non solo in termini economici ma anche di reputazione — non rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori.

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