Tra i tanti flop del mondo tecnologico, uno dei più clamorosi riguarda i Google Glass, gli occhiali intelligenti di Google, che hanno deluso le aspettative di quanti li avevano aspettati per anni.
Appartenenti alla categoria degli smart glasses, i Google Glass vennero prodotti in una sola variante, nonostante la società abbia diffuso numerosi prototipi di una seconda edizione aggiornata – una delle quali venne anche venduta su eBay da una compagnia di San Diego.
L’elemento principale dei Google Glass, ciò che rende quest’oggetto speciale, è il vetrino presente su un lato degli occhiali – spostabile a discrezione dell’utente – che altro non è se non un display che consente di visualizzare applicazioni, video e contenuti multimediali come se fossero proiettati da una televisione da 25 pollici ad una distanza di due metri, secondo le indicazioni di Google.
Al lancio, pochi li hanno comprati e in pochissimi poi hanno cominciati ad usarli: un costo proibitivo, una campagna pubblicitaria che non ha fatto conoscere bene le potenzialità del prodotto, il mal di testa e le nausee di chi invece voleva per forza lanciarsi anzitempo nel futuro, indossando un dispositivo che aiutava poco, i motivi principali del flop.
Ma finalmente potrebbero trovare un loro nobile scopo: gli occhiali di Google potrebbero essere impiegati come supporto nella terapia per l’autismo.
I bambini affetti da autismo manifestano infatti un ampio spettro di difficoltà di interazione con il mondo esterno, specialmente con le altre persone. In particolare, sostenere il contatto visivo e desumere lo stato d’animo della persona che hanno di fronte dalle espressioni facciali risulta spesso un compito difficile, che necessita di allenamento, supportato da terapisti specializzati.
Ed è qui che entrerebbero in gioco i Google Glass: alcuni ricercatori di Standford hanno iniziato a sperimentare il loro impiego come surrogato a alla classica terapia condotta dai terapisti, che purtroppo non sono sufficienti a seguire i bambini uno per uno.
Gli occhiali di Google hanno il compito di riprendere il volto della persona nel campo visivo e trasferire le informazioni ad uno smartphone collegato. Da qui, servendosi dell’intelligenza artificiale, parte un nuovo input indirizzato ai Glass, chiamati a visualizzare sul proprio display una emoticon relativa allo stato d’animo decifrato, permettendo al bambino o alla bambina di recepire l’informazione corretta.
Il software, progettato per essere utilizzato durante le interazioni sociali, è stato recapitato alle 14 famiglie risultate idonee e testato per diverse settimane su pazienti di età compresa tra i 3 e i 17 anni. Permette ai bambini che lo indossano di imparare a riconoscere otto emozioni “universali”: felicità, tristezza, rabbia, disgusto, sorpresa, paura, neutralità e disprezzo. A seconda dell’emozione rilevata nell’interlocutore, Glass fornisce un riscontro audiovisivo a chi lo indossa sfruttando la fotocamera rivolta verso l’esterno.
E, a quanto pare, le prime sperimentazioni hanno avuto risultati incoraggianti, consentendo ai bambini non solo di migliorare il corretto riconoscimento delle espressioni facciali, ma anche di sostenere maggiormente il contatto visivo e di espandere le interazioni sociali.
Addirittura, per alcuni bimbi il grado di malattia è sceso da grave a moderato, per altri da moderato a lieve e per altri ancora da lieve a condizione normale.
E chissà che questa non sia la strada giusta per poter sfruttare appieno una tecnologia che ad oggi è stata ampiamente sotto-sfruttata.